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Il ritorno all’origine è la risposta?

di Manuel Antonio Bragonzi

 

Nel 2013, grazie al mio primo libro, scritto insieme a Marcello Foa, che racconta esclusivamente la mia esperienza cilena, senza menzionare l'adozione, iniziai comunque a essere invitato dalle associazioni di genitori “adottivi”.

 

L’esistenza di associazioni composte solo da genitori “adottivi” mi parve molto strana e ne rimasi stupito. Spesso mi domandai il motivo della loro esistenza.

Perché?

Perché io non ho mai focalizzato la mia attenzione sul fatto di essere stato adottato. Quando mi dissero che sarei diventato figlio di una coppia italiana e io accettai di esserlo, da quel momento mi sentii immediatamente figlio, nel modo più naturale e normale possibile. Non mi sono mai sentito un figlio diverso, un figlio “adottivo”, dove l’adozione fosse il punto centrale del mio essere figlio o della mia vita. Mi sembrò strano che dei genitori, invece, si focalizzassero tanto su un’esperienza “adottiva” che, per me, non esisteva. Come se si potesse vivere sempre focalizzati sull’essere genitori che avevano avuto figli solo grazie all’adozione, diversi da chi li aveva partoriti. Sì, diversi nella modalità, ma non nell’essere genitori. Questo modo di vivere la genitorialità ha portato, a mio avviso, i figli a credere di essere sempre “adottivi”, come se il loro essere figli fosse macchiato da qualcosa che non potesse farli sentire figli fino in fondo. “Adottivi”, appunto. Genitori diversi, figli diversi. Una famiglia diversa. Tutto ciò mi è sempre sembrato inquietante. Facendo vivere il figlio nell’essere “adottivo” fin dall’infanzia, diventa ovvio che la sua attenzione emotiva sia sempre rivolta al passato e che il suo presente, come figlio, crescendo, risulti sempre più fragile. Questo accade perché il suo legame con i genitori è contaminato dal pensiero “adottivo”. Nella sua vita, tutto è “adottivo”. Ci guardano, ci analizzano, e gli “esperti di adozione” (generalmente psicologi) sono i primi a guardarci come “adottivi” e non come figli che sono stati adottati… o, semplicemente, come figli.

Il nostro passato diventa “Origine”.

L’abbandono diventa “la ferita primaria (originale)”.

 

Quindi, per guarire dal nostro malessere, bisogna guardare all’ ”Origine” e alla nostra “ferita primaria”, per poter “CHIUDERE IL CERCHIO”. Forse, se si fossero concentrati di più sui traumi e meno sul concetto di “adozione”, sarebbero stati molto più utili ai figli e ai genitori. Non dimentichiamo che pochi nella vita non hanno vissuto traumi o microtraumi; anche i genitori sono portatori di traumi e rischiano di trasmetterli ai figli. La persona adottata, quindi, per stare meglio “deve chiudere il cerchio”, fa niente se dentro di sé porta ferite psicologiche causate da traumi mai guardati e analizzati. Basta tornare all’”Origine” e tutto si sistemerà. La “Chiusura del cerchio” è entrata nella bocca di tutti. Se non si parlava di “chiusura del cerchio” e quindi di “ritorno all’origine”, non si era esperti o non si conosceva l’adozione. Sembrava e sembra una corsa all’oro: le persone adottate, influenzate da questo pensiero fin da bambini, iniziarono, appena potevano, la loro “ricerca dell’origine”. Il “bisogno” è stato creato e deve essere necessariamente soddisfatto. In Italia, per avere accesso alle informazioni sull’origine, bisogna aspettare il compimento del venticinquesimo anno di età, dopo un colloquio con il Giudice Onorario, che dovrà esaminare lo stato psicologico del richiedente. Si è pensato che la persona avesse l’età giusta per poter conoscere la propria origine, maturo al punto giusto, e che, se avesse avuto dei traumi, sarebbe stato aiutato da professionisti competenti. Il condizionamento, però, è troppo forte; spesso non si riesce ad aspettare e, a sedici o diciotto anni, si inizia a cercare la propria origine.

L’”Origine” è diventato IL bisogno primario, non uno dei bisogni (come è normale che sia) e il trauma è passato in secondo piano.

In tutti questi anni di incontri con persone adottate, raramente ho incontrato qualcuno disinteressato alla ricerca dell’origine. È un dato di fatto: anche se mi apparteneva poco, dovevo comunque riconoscere questo bisogno. L’origine è sì un fattore importante, l’ho sempre riconosciuto.

Ma di quale origine parliamo?

Di origine biologica o di origine del Paese di nascita? Per molte persone, l’origine s’intende quella biologica. Per quanto mi riguarda, il mio attaccamento all’origine era legato principalmente alla mia terra, al mio Cile. Ho sempre sostenuto che sia importante per noi non negare la nostra origine, perché fa parte di noi, delle nostre radici, anche se ci ha portato sofferenza. Negare la nostra origine è negare una parte importante di noi. Per molte persone, quando si parla di origine, s’intende quella biologica. Perciò, la ricerca dell’origine è sì un elemento importante per la persona adottata, ma solo uno degli elementi. Non può diventare l’elemento più importante della nostra crescita e serenità, non può essere la risposta al nostro malessere, ove ci fosse. A mio avviso, la ricerca dell’origine non può essere considerata la “chiusura del cerchio”, perché ho visto tante esperienze in cui la persona adottata, dopo una lunga ricerca, ritrova finalmente la propria famiglia biologica e torna più distrutta di prima. Ad altre persone, ha dato più stabilità e serenità, come se quel legame spezzato e mancante avesse dato un senso a un vuoto senza nome che sentivano dentro. Ho notato che per le persone già più serene con se stesse, la ricerca dell’origine è un tassello aggiunto alla propria vita, non il punto fondamentale, non il risolutore di traumi. Il punto principale che differenzia le due situazioni sembra essere solo uno: lo sguardo sul trauma. In quanti hanno realmente affrontato il proprio vissuto? In quanti sono stati aiutati dai propri genitori ad essere seguiti da un professionista? In quanti, nonostante non siano in equilibrio, partono per la loro ricerca dell’origine biologica? Perché lo fanno? Forse perché dicono tutti che la ricerca è la “chiusura del cerchio” e che dopo si starà meglio. Come ho detto, non ho mai provato il desiderio dell’origine biologica. Sapevo di avere dei parenti in Cile, ma ne ero disinteressato. A me interessava solo mia mamma, che era morta assassinata.

Poi… BOOM! Una bomba è scoppiata.

Pochi anni fa, mi giunse una lettera che diceva che mia mamma, che era incinta, riuscì a dare alla luce due gemelle prima di morire. Ne rimasi folgorato. Avevo due sorelle. Mi sentivo agitato, mi girava la testa, ero euforico e il cuore batteva forte. Mi sentivo come tanti ragazzi che avevano cercato la propria origine e avevano trovato la famiglia biologica. Mi sentivo normale, come gli altri. Agli altri ragazzi, questo sentimento durava anni, minimo un anno. A me durò una settimana. Pensai che prima o poi le avrei cercate, con calma. Tutto ha il suo tempo. Nel frattempo, avevo la mia vita da vivere; le mie sorelle non potevano diventare il mio unico pensiero e distrarmi dal mio presente: avevo una famiglia, figli, lavoro, compagna, ecc. Lo so che possa sembrare strano a tanti ragazzi adottati, ma io ero sereno, sapevo dell’esistenza delle mie sorelle e che prima o poi le avrei cercate. Da allora sono passati cinque anni. Ogni tanto pensavo alle mie sorelle e immaginavo il nostro incontro. Ero l’unico che poteva parlare di nostra madre a loro. Nella lettera era scritto che c’era anche una mia zia, sorella di mia mamma, che viveva ancora nel mio villaggio di contadini. Tre mesi fa, non ricordo per quale motivo, decisi di contattare un ente governativo cileno che si occupa di rintracciare i parenti delle persone adottate. Feci degli incontri online con la responsabile, ma alla fine capii che non poteva aiutarmi più di tanto, i miei documenti erano strani. Il giorno dopo l'ultimo incontro con la rappresentante dell’ente, decisi di cercare da solo mia zia, l’unica di cui sapevo dove fosse. Non volevo lei, lei era un tramite per sapere delle mie sorelle. Grazie ai social, riuscì a trovare mia zia in un solo giorno. Abbiamo fissato un appuntamento per una videochiamata. Vidi per la prima volta mia zia. Insieme a lei c’erano un mio cugino e una mia cugina. Mia zia piangeva, commossa, e non stava nella pelle. Io ero sì un pochino agitato, ma per niente commosso. Ero felice di parlare con la sorella di mia mamma, ma nulla di più. Quella persona non era nulla nella mia vita, non avevo nessun legame con lei. Si sparse rapidamente la voce tra i miei parenti e conobbi tantissimi zii, zie, cugini e cugine da parte di mia mamma e da parte di un papà che non conoscevo, morto anch’egli assassinato anni dopo mia mamma. Anche questa notizia non mi ha scosso. Tutti, qui in Italia, mi dicevano: “Sfoga i tuoi sentimenti”, “Non trattenerti”, “Madonna che emozione, chissà quanto sarai emozionato tu”, “Tranquillo, vedrai che le emozioni verranno fuori e piangerai liberamente”… ecc. ecc. Io, però, non dovevo sfogare nulla, non ero commosso. Tutti i miei parenti, appena mi vedevano tramite videochiamata, piangevano, io no. Io sorridevo felice. Sì, ero felice di conoscerli… nulla di più. Poi scoprii di avere anche una sorella, di due anni più piccola di me. Riuscimmo a contattarci, anche lei pianse, mi cercava da anni, sapeva di me, dovevo essere adottato dalla stessa coppia, ma in qualche modo non fu possibile e sparii senza che loro sapessero nulla di me. Chiusi la telefonata felice di averla conosciuta e mi rivolsi alla mia compagna: “Piangono tutti quando mi vedono, perché io non piango? Perché non provo la stessa emozione loro?” Mi sentii diverso. Ero diverso anche da tutti i ragazzi che mi raccontarono le loro esperienze. Perché? Cercai di capire il mio atteggiamento per due mesi, analizzandomi, paragonando la mia vita a quella dei ragazzi conosciuti in questi anni. Perché sono diverso da loro? Alla fine capii che c’erano due differenze: tra quelle persone nessuna era mia mamma. Forse, se avessi trovato mia mamma, avrei reagito come tutti gli altri. Però i ragazzi avevano reagito con grande eccitazione e commozione anche con fratelli e sorelle, io no. L’altra differenza è che non sentivo loro parte del mio mondo. Io non avevo nessuna domanda da porre che dovesse sistemare qualcosa di me. Io non avevo buchi da chiudere con delle risposte, i miei traumi li avevo sempre affrontati. Io ero a posto, non avevo bisogno di loro. In sostanza, loro facevano parte del mio cerchio, ma il mio cerchio era già chiuso… se proprio bisogna parlare di cerchio. Sono felice di avere una sorella, ma non ho nessun legame con lei, come è giusto che sia. Io sono cresciuto qui, sono maturato qui, ho costruito una vita con tutte le difficoltà del caso e a questa vita loro non appartengono. Ci continueremo a sentire, certo, con molto piacere. Un po’ come avere degli zii in un’altra regione che senti raramente, a cui non devi nulla e che in realtà non appartengono alla tua vita. Diciamo che mi ha scosso di più la mia reazione così diversa da tutti gli altri adottati che l’aver conosciuto i miei parenti e mia sorella. Alla fine capisco che la risposta alla mia reazione è solo una: sono in pace con me stesso e non ho bisogno di loro per sapere chi sono. La gioia di conoscerli e sentirli rimane, con tutta la serenità possibile. Non c’è foga nel volerli sentire quotidianamente, ho comunque una vita qui e la mia famiglia è abbastanza impegnativa. Credo che ci sia bisogno di educarci in modo diverso e di liberarci da questo bisogno di "chiudere il cerchio". Il bisogno primario è affrontare a fondo il nostro vissuto. Se ci fa soffrire, dobbiamo cercare di capire i nostri comportamenti, di essere seguiti seriamente, e una volta che abbiamo trovato l'equilibrio, possiamo cercare la nostra origine biologica con la giusta prospettiva. Altrimenti, l'esperienza non può che destabilizzarci, perché chi incontriamo o non ci vuole, o ci vuole troppo, sovraccaricandoci.

 

 

Cari genitori, guardate vostro figlio e aiutatelo anche con il supporto di professionisti. Non fate sì che la loro ricerca dell'origine diventi la risposta al loro malessere, perché non sarà mai così. La parte più importante non è l'adozione, ma il vissuto traumatico che condizionerà la loro vita se non sarà affrontato nel modo giusto. La ricerca dell'origine è un percorso che fa parte della vita, ma deve essere affrontato con coscienza e maturità, quando tutto nella propria vita è già equilibrato.  

 

 

 

M'aMa vi supporta nella ricerca delle origini per saperne di più: più:

www.mammematte.com/2024/11/21/la-ricerca-delle-origini-delle-persone-adottate-un-percorso-intimo-e-complesso/

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