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Riflessioni sullo sguardo adottivo: identità, trauma e genitorialità oltre il copione

 

di Viviana Bucciarelli

 

Negli ultimi anni, il discorso sull’adozione si è arricchito di riflessioni sempre più articolate e complesse. Sulla scia di una maggiore sensibilità verso i vissuti dei bambini adottati, la narrazione che li accompagna si è concentrata in modo crescente sulla dimensione del trauma, sulla “ferita originaria”, sull’abbandono, sulla mancanza di radici. È indubbio che l’adozione sia un percorso che nasce da una frattura e che porta con sé una storia fatta di strappi, perdite, rielaborazioni.

Tuttavia, occorre interrogarsi su quanto questa narrazione dominante, per quanto animata da buone intenzioni e conoscenze teoriche approfondite, stia influenzando profondamente lo sguardo genitoriale e, di riflesso, la costruzione dell’identità dei figli adottati.

 

Oltre la preparazione: lo sguardo genitoriale nella quotidianità

Se in un primo tempo la riflessione si è centrata sulla preparazione dei futuri genitori adottivi, oggi è altrettanto urgente spostare l’attenzione su ciò che avviene dopo: quando i bambini sono già in casa, quando la famiglia vive la sua quotidianità. È in questa fase che lo sguardo costruito nella fase preparatoria – e poi alimentato da libri, articoli, incontri con associazioni, forum virtuali – prende forma e si manifesta nel rapporto reale tra genitori e figli.

Molti strumenti formativi, infatti, pur offrendo risorse importanti, finiscono col promuovere una visione iper-analitica e clinica del bambino, spesso ridotto alla sua storia pregressa. Ogni comportamento, ogni difficoltà, ogni fatica viene letta attraverso la lente del trauma. Si rischia così di sottrarre spontaneità e autenticità alla relazione, riducendo la genitorialità a una performance osservante, cauta, iperattenta, e quindi potenzialmente inibita.

 

Il rischio di uno sguardo clinico interiorizzato

Questo approccio, se non accompagnato da una profonda elaborazione personale da parte dei genitori, può generare una sorta di interiorizzazione dello sguardo clinico, che finisce per influenzare non solo il modo in cui il genitore guarda il figlio, ma anche il modo in cui il figlio guarda sé stesso.

Un ragazzo adottato che cresce sentendosi osservato attraverso la lente della mancanza, del trauma, della fragilità, potrà finire per identificarsi con queste categorie. Potrà convincersi, ad esempio, che se sbaglia è per via delle sue “ferite profonde”, mentre se lo fa un coetaneo biologico è solo una bravata. Potrà arrivare a pensare: “io non sono completo perché non conosco le mie radici”, oppure “tanto io ho un trauma, quindi ogni mio comportamento è condizionato e non posso farci nulla”.

Questa narrazione può diventare auto-limitante. Se il figlio sente di essere un “progetto di recupero” anziché una persona piena, rischia di rinunciare a prendersi responsabilità, a credere nella propria capacità di agire e costruire. E se ogni difficoltà è attribuita a un passato ingombrante, anche il genitore può faticare a rappresentare un argine sicuro, assumendo invece un atteggiamento giustificazionista che, nel lungo termine, rischia di invalidare il percorso educativo.

 

Sulla ricerca delle origini: valore, limiti e narrazioni

Uno degli elementi centrali della narrazione adottiva contemporanea è la ricerca delle origini, spesso presentata come un passaggio indispensabile per la costruzione di un’identità coesa e completa. È fondamentale chiarire che non si nega in alcun modo l’importanza di questo diritto né il valore che tale ricerca può avere per molti ragazzi adottati. È un diritto da tutelare e un percorso da accompagnare con rispetto e competenza.

Tuttavia, occorre essere cauti nel caricare questo passaggio di un valore salvifico, quasi fosse l’unico modo per “chiudere il cerchio”, “riempire il buco”, “diventare completi”. Il rischio di questa impostazione è trasformare la mancanza di informazioni sulle origini in una mancanza ontologica, come se l’identità della persona fosse irrimediabilmente fallata fino al ritrovamento delle sue radici biologiche.

È necessario restituire complessità alla costruzione dell’identità, aiutando i ragazzi a comprendere che non si è solo frutto delle proprie origini, ma anche – e soprattutto – delle proprie esperienze, delle relazioni vissute, delle scelte fatte, degli affetti ricevuti. Il non conoscere parte della propria storia non equivale a essere manchevoli come persone. Le domande possono restare aperte, ma ciò non invalida l’identità di chi le porta.

 

Bisogni indotti e narrazioni performative

Paradossalmente, una narrazione troppo focalizzata sulla mancanza e sul trauma può indurre bisogni, anziché rispondere a quelli reali. Quando il discorso sociale, culturale e formativo spinge il bambino o il ragazzo a pensarsi come “incompleto” o “problematico per definizione”, si crea una cornice in cui anche ciò che non sarebbe un problema finisce per diventarlo.

In questo senso, anche la genitorialità rischia di diventare una performance, una recita di accortezze cliniche, una gestione ansiosa delle emozioni e dei comportamenti, piuttosto che una relazione viva e genuina. Serve un cambio di paradigma: dalla “sorveglianza” all’autenticità relazionale.

 

Verso nuovi strumenti: lo sguardo che cura

Non si tratta di ridurre la preparazione o la formazione, ma di arricchirla con percorsi che aiutino i genitori a restare in contatto con sé stessi, con il proprio stile, con le proprie paure e incertezze, offrendo spazi di confronto non solo informativi ma anche esperienziali. Occorrono strumenti per abitare la relazione, più che per analizzarla.

In questo senso, gli studi di Leeming e Hayes possono offrire un contributo prezioso: secondo i loro risultati, mindfulness, flessibilità psicologica e auto-compassione sono risorse fondamentali nella riduzione dello stress genitoriale. Coltivarle permette ai genitori di essere meno reattivi, più presenti, più capaci di regolare le emozioni e di mantenere uno sguardo non giudicante su sé stessi e sui propri figli. Questo favorisce una relazione più autentica, meno caricata di aspettative, meno ansiosa e più capace di accogliere l’altro per ciò che è, non per ciò che rappresenta.

 

È tempo di riflettere su come lo sguardo adottivo si costruisce e su come può diventare – involontariamente – una gabbia interpretativa. Aiutare i genitori adottivi non significa solo informarli, ma anche accompagnarli nella costruzione di un modo di essere genitori che sia fondato sull’ascolto, sulla presenza, sulla capacità di stare nella relazione senza sovradeterminarla.

E soprattutto, significa liberare i figli adottati dalla narrazione della mancanza, ricordando loro che sono già completi – anche nelle loro domande, anche nelle loro ferite – perché ciò che siamo è sempre più grande della somma delle nostre origini.

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