
di Serena Savarelli- Ostetrica e Mamma Ponte
Per ogni day hospital, ricovero, visita ambulatoriale o prelievo del sangue, mi sento ripetere sempre le stesse frasi: “Che bravo bambino, non piange nemmeno!” oppure “Guarda che bravo, si è pure addormentato!”.
Da madre e da operatore sanitario, mi sono sempre chiesta: ma si tratta proprio di bravura? O stiamo assistendo a qualcos’altro?
Oggi mi trovo in una di quelle situazioni.
Osservo il mio bambino che, al terzo tentativo da parte dell’infermiera di prendere una vena dal suo braccio, tira un po’ fuori la voce, come un lieve miagolio. Forse una lacrimuccia esce dall’occhio di destra. Si fa rosso nel volto. Nell’istante in cui le mani della seconda infermiera, quelle che bloccavano braccio e gambe, si allontanano da lui, il mio piccolo si addormenta. Ha gli occhi chiusi, sopracciglia ancora corrucciate, perle di sudore sulla fronte e il respiro affannato. Il suo ipotono di base è più marcato e, l’ultima sua azione prima di spegnersi, nel vero senso della parola, è fissare il vuoto per qualche secondo senza più rispondere alle mie stimolazioni verbali e tattili.
Il mio bambino ha vissuto i suoi primi tre mesi di vita negli ospedali, ha conosciuto più di una terapia intensiva neonatale, tra suoni e macchinari, con tubi nel suo corpo che entravano e uscivano in modo inquietante, sottoposto a manovre invasive, forzature fino alla sedazione con ben tre farmaci. E questo per troppo tempo.
Un giorno descrivo cosa fa il mio bambino ogni volta che è sotto stress, specialmente quando si trova in un ambiente medico, alla mia amica e lei mi risponde così: “Anche il mio fa così quando c’è il temporale! La psicologa mi ha detto che è la sua modalità intelligente per superare la paura”.
Modalità intelligente? Sopravvivenza? E poi arrivo a pensare: è una strategia di adattamento?
Dopo ogni suo spegnersi, aspetto che il mio bambino si attivi un pochino; lo osservo attentamente perché c’è un momento esatto in cui lui ha bisogno di me per tornare alla realtà. È quell’attimo in cui, se aggancia il mio sguardo, è di nuovo con me. Resta, però, immobile, non sorride come al suo solito, un po’ perso dentro sé stesso come incerto se tornare davvero al presente oppure restare nel suo mondo, dietro quella che credo essere la sua fortezza dentro alla quale non è pienamente cosciente di quello che gli viene fatto. Ma io so che lui c’è, che non ha dimenticato i traguardi raggiunti e le tappe acquisite. Il suo potenziale è lì, accantonato per un tempo preciso.
Imparando a conoscere il mio bambino, so come raggiungerlo e riportarlo a me.
Inizio con “le mani che riposano”, cioè poggio i palmi delle mie mani delicatamente sulle parti scoperte del suo corpo. Sto lì ferma e aspetto che lui ricordi che ci sono tocchi amorevoli che non provocano dolore, ma amano incondizionatamente. Aspetto di sentire lui, la sua reazione: a volte un fremito, o un arto che si muove in modo leggero, ma anche le rughe della fronte che si distendono.
Allora, in quel momento, inizio a muovere le mie mani, su e giù, con dolcezza e lentezza. Arriva un sorriso e con questo la prima luce nelle sue iridi azzurre.
A casa, lo svesto delicatamente, lascio che si abbandoni ai movimenti che lo invito a fare e gli dico: “Facciamo il massaggino?”. Metto la musica che accompagna questo nostro momento intimo e speciale. Con “Ami tomake” in sottofondo, lui fissa i miei occhi e si aggrappa al senso di sicurezza. Il massaggio infantile non è una serie di esercizi tecnici, è l’arte che trasmette amore, uno scambio reciproco che insegna a riconoscere i bisogni, che lega due corpi, che, attraverso il tatto, insegna a rilasciare le tensioni e ricarica di energia nuova. Quando il massaggio termina, lo prendo in braccio; il mio bambino si accoccola e la mia guancia si incolla alla sua tempia, il suo corpo si affida. È sereno di esserci e di stare nella nostra presenza consapevole.
Spesso è sufficiente il massaggio infantile, ma, a volte, lo stress è tale per cui servono giorni di massaggio, ore continue di coccole e parole gentili sussurrate in modo dolce, musiche rilassanti mentre lo cullo riproponendo il movimento uterino, piegando le ginocchia su e giù e anche quei tocchi delicati che lo hanno accompagnato nei mesi trascorsi in terapia intensiva, in quei punti specifici come la tempia sinistra, sopra la radice del naso e nel dorso della mano. Servono orari precisi, una routine costante con poche variazioni.
Mi tornano in mente queste parole lette da qualche parte: “recupero post stress”. Mando un messaggio alla mia amica, psicologa, e lei si mette alla ricerca finché non mi invia un articolo recuperato da PubMed.
“Reazione di conservazione-ritiro nell’infanzia. Un’entità poco descritta”.
Reazione di conservazione-ritiro.
Guardo il mio bambino, lo ripenso in certe circostanze e so che quello che gli accade è proprio questo.
Nei primi mesi alcuni lattanti possono rispondere a stress molto intensi con questo tipo di reazione definita “conservation-withdrawal”. Divoro l’articolo e comprendo che le caratteristiche di questa reazione sono gli effetti che ritrovo nel mio bambino: calo di reattività, minori segnali sociali, riduzione del movimento, fino a sonnolenza marcata. È una strategia biologica di risparmio energetico quando l’ambiente è percepito come troppo impegnativo.
Il ritiro sociale è qualcosa che m’impressiona molto, perché percepisco la sensazione netta del suo allontanarsi da me e dal suo vero sé. Il sonno e l’ipo reattività lo trascinano via insieme ai suoi bellissimi sorrisi.
Esistono degli strumenti di osservazione clinica come lo Alarm Distress baby Scale (ADBB) per riconoscere questa reazione. Io sono stata uno strumento di osservazione per mio figlio, anche se molti hanno minimizzato o ignorato quanto riferivo di lui, nascondendo il tutto dietro a frasi del tipo: “È normale che fa così, è piccolino”. Non possiamo ignorare che sul piano fisiologico, i neonati, specie se nati prematuramente, con bisogni speciali, come il mio bambino, sono molto sensibili al dolore; il dolore-stress altera gli stati di veglia-sonno. Ci sono interventi non farmacologici, attuabili durante le procedure dolorose, come il contatto pelle-pelle, l’allattamento, azioni di contenimento, che riducono le risposte anatomiche al dolore.
Io non posso ricorrere all’allattamento per il mio bambino in affido, ma il contatto pelle-pelle e il contenimento sono i nostri salvagenti che impediscono a lui di annegare nel vuoto e a me di perderlo, seppur momentaneamente. Quando è possibile, pretendo che mi rimanga in braccio, così che può accoccolarsi nell’incavo tra il mio collo e la spalla, mi succhia la pelle scoperta o resta lì fermo con le labbra schiuse sentendo il mio odore. Gli poggio la mano sulla nuca e la mia bocca si posa sulla sua tempia, su e giù con le ginocchia. Se è proprio in crisi passeggio come fa la Pantera Rosa e canto la sua ninna nanna preferita.
George Engel, psichiatra statunitense, ha descritto lo “stato di conservazione-ritiro” come un pattern psicobiologico primario in cui un individuo si isola dall’ambiente per ridurre l’attività e il dispendio energetico, concentrando le risorse interne per mantenere l’omeostasi e resistere a una condizione minacciosa.
Il prelievo venoso e il cambio del sondino nasogastrico sono le più grandi minacce per il mio bambino, che riconosce bene quando la situazione sta degenerando per lui. Non appena qualcuno lo stringe o lo mantiene stretto impedendogli i movimenti, comprende che, di lì a poco, arriverà lo stimolo doloroso.
Quando gli cambio il cerotto che mantiene saldo il sondino nel suo volto, so che sarà collaborante se nessuno lo tocca e mentre io compio questa operazione, comunque fastidiosa e leggermente dolorosa, solo creandogli una situazione di piacere intorno, lui resta calmo, ma vigile e presente.
Lo “stato di conservazione-ritiro” è, per me, anche un mezzo di comunicazione che può insegnare all’adulto a dare risposte e restare nei silenzi che ascoltano e costruire spazi di consapevolezza. È un segnale potente che ci chiede di rallentare, osservare e offrire presenza autentica.
Quando un bambino si ritira non sta scegliendo, sta subendo. Sta dicendo, a modo suo, che qualcosa è troppo e il compito dell’adulto al suo fianco è quello di creare uno spazio dove il bisogno di protezione trova risposta nell’accoglienza e il bisogno di connessione nella presenza. Perché è lì, nel terreno sicuro della relazione, che ogni bambino può finalmente sentire di poter tornare al mondo.
Riferimenti utili (per approfondire):
Reazione di conservazione-ritiro nell’infanzia? Un’entità poco descritta. Samuel Menahem, prima pubblicazione: gennaio 1994. https://doi.org/10.1111/j.1365-2214.1994.tb00371.x
Conservation–withdrawal in infancy (casistica e inquadramento clinico). J Paediatr Child Health (1994).
Social withdrawal behavior in infancy: history & review (rassegna sull’ADBB). Infant Mental Health Journal (2013).
How to screen for social withdrawal in primary care (validità ADBB su >10.000 lattanti). BMC Pediatr (2024).
Feasibility of ADBB/m-ADBB in UK health visiting (fattibilità nel servizio pubblico). BMJ Paediatrics Open (2025).
Pain assessment in human fetus and infants (stati comportamentali e dolore). Clin Perinatol review su PMC.
Systematic review delle scale del dolore neonatale (impatti su sonno/comportamento). PAIN (2021).
Trauma-informed care in the NICU (cornice teorica, inclusa polivagale). Journal of Perinatology (2017).
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