
di Paolo Scipioni
Quando la scuola deve avere il coraggio di guardare in faccia i bisogni reali
Da anni la parola inclusione è entrata di diritto nel lessico educativo.
È un principio fondante, un obiettivo condiviso, una bandiera che nessuna scuola vuole — né deve — abbandonare.
Eppure, a forza di ripeterla, rischiamo di trasformarla in uno slogan.
Per questo occorre fermarsi, respirare e avere il coraggio di porci una domanda scomoda:
Quando parliamo di inclusione, stiamo davvero facendo il bene degli studenti o stiamo semplicemente rassicurando i benpensanti?
L’ombra dell’omologazione
Ogni bambino porta con sé un universo: capacità, limiti, desideri, fragilità. Eppure, troppo spesso, si confonde l’inclusione con la semplice presenza in aula.
Un bambino con disabilità non è incluso solo perché siede nello stesso banco dei suoi coetanei. Se le attività non sono calibrate su di lui, se le lezioni scorrono senza che riesca a partecipare, se ogni giorno si misura solo con ciò che non può fare, non stiamo includendo: stiamo omologando.
E l’omologazione, soprattutto quando si parla di disabilità, rischia di diventare esclusione silenziosa.
Rispondere ai bisogni con progetti speciali
Inclusione non significa uniformità. Significa, al contrario, personalizzazione radicale.
Non bastano PEI, sostegni o terapie parallele. Occorre un progetto scolastico cucito addosso ai ragazzi con bisogni speciali, un progetto che sia equo, dignitoso e stimolante.
• Un bambino con disabilità motoria deve poter accedere alla tecnologia che gli consente di scrivere, comunicare, esplorare.
• Un ragazzo nello spettro autistico può necessitare di momenti individualizzati in spazi più tranquilli, alternati a un graduale rientro in classe.
• Una bambina con disabilità intellettiva significativa merita obiettivi diversi, non inferiori: autonomie personali, competenze pratiche, strumenti di comunicazione autentica.
Non si tratta di creare classi “speciali” contrapposte a quelle ordinarie, ma di costruire un mosaico di opportunità. Perché un percorso uguale per tutti non è giustizia: è la sua negazione.
Modelli che indicano la strada
Nel panorama internazionale troviamo esperienze che possono ispirarci.
• Finlandia: la special needs education integra figure esperte dentro e fuori dalla classe, con percorsi paralleli per chi ha bisogni molto specifici.
• Reggio Emilia Approach: un modello che valorizza i cento linguaggi del bambino, dove la diversità non è un ostacolo, ma una fonte inesauribile di espressione.
• Inclusive Classrooms nel Regno Unito: spazi “hub” permettono agli studenti con disabilità di lavorare su obiettivi mirati e poi rientrare in aula, riducendo frustrazione e favorendo la partecipazione.
Tutti esempi che ci ricordano una verità semplice: l’inclusione non è un protocollo, ma un’arte educativa.
Il bene dello studente, prima di tutto
Ogni volta che costruiamo un percorso, dobbiamo porci una domanda chiara: cosa serve a questo bambino per crescere e fiorire?
A volte la risposta sarà “stare con i compagni in classe”.
Altre volte sarà “partecipare a un laboratorio personalizzato, lavorare sull’autonomia, sviluppare competenze diverse”.
In entrambi i casi, la bussola resta la stessa: il bene dello studente.
Includere non significa forzare dentro un modello prestabilito, ma creare lo spazio dove ciascuno possa brillare per ciò che è.
Una scuola più giusta per tutti
Includere davvero non è solo un atto verso chi ha una disabilità. È un dono che arricchisce l’intera comunità scolastica.
• I compagni imparano che la diversità è parte della vita, non un’eccezione.
• I docenti diventano artigiani di didattica, capaci di reinventarsi.
• Le famiglie trovano supporto, non solitudine.
• E i bambini, soprattutto, trovano dignità, motivazione, speranza.
Forse è tempo di dirlo con chiarezza: la vera inclusione non si misura dal numero di studenti inseriti in una classe, ma dalla qualità del percorso che costruiamo per loro.
Non il bene dei benpensanti, ma il bene dello studente. Sempre.
Con coraggio, professionalità e cuore.
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