
Il tema dell’adozione da parte di persone con disabilità apre un delicato dibattito giuridico collocato sul confine tra il divieto di discriminazione sancito dalle convenzioni internazionali e la necessità di garantire, in ogni caso, il superiore interesse del minore.
La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (CRPD), ratificata dall’Italia con la legge n. 18/2009, sancisce il diritto delle persone con disabilità a formare una famiglia, a diventare genitori e a non essere oggetto di discriminazioni nelle decisioni relative alla genitorialità.
Parallelamente, la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (CRC) pone al centro il principio del “best interest of the child”, ripreso anche dalla legislazione italiana in materia di adozione (legge n. 184/1983 e successive modifiche). L’adozione, in questa prospettiva, non è un diritto dell’adulto ma un istituto costruito per dare al minore una famiglia idonea ad accoglierlo.
La tensione tra i due principi – non discriminazione e interesse del minore – emerge in modo evidente quando un aspirante genitore adottivo presenta una condizione di disabilità.
Da un lato, escludere a priori una persona sulla base della sua condizione fisica, sensoriale o psichica costituirebbe un atto discriminatorio. La valutazione di idoneità deve infatti basarsi sulla capacità concreta di garantire cura, stabilità affettiva e sostegno educativo, piuttosto che su una condizione sanitaria astratta.
Dall’altro, la valutazione dei servizi sociali e del tribunale per i minorenni non può eludere un’analisi oggettiva delle conseguenze che una determinata disabilità può avere sulla possibilità di rispondere ai bisogni specifici del minore da adottare.
La giurisprudenza italiana ha mostrato prudenza, sottolineando che il giudizio di idoneità non può fondarsi su automatismi o pregiudizi, ma deve valutare caso per caso. Ciò implica analizzare non solo le condizioni di salute del candidato, ma anche la rete familiare e sociale di sostegno, le risorse economiche, la resilienza psicologica e la capacità di prevedere strategie di accudimento alternative qualora la disabilità comporti limitazioni pratiche.
Il confine è dunque sottile: occorre evitare che la disabilità diventi un criterio di esclusione automatica, trasformandosi in discriminazione indiretta; allo stesso tempo, l’interesse del minore non può essere sacrificato sull’altare dell’uguaglianza formale.
La sfida per giuristi, operatori e giudici consiste nel costruire valutazioni personalizzate, trasparenti e motivate, capaci di coniugare il diritto delle persone con disabilità a non essere escluse a priori con la tutela effettiva del minore, unico vero titolare del “diritto all’adozione”.
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