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Ripartire dopo il  caso Bibbiano per guardare al sistema affido con più consapevolezza

di Emilia Russo

Premessa doverosala gogna mediatica è sempre un errore, soprattutto quando anticipa e sovrasta il lavoro della magistratura, creando mostri prima ancora che siano accertate responsabilità.

A distanza di anni dall’inchiesta “Angeli e Demoni” che ha travolto Bibbiano e il sistema dei servizi sociali della Val d’Enza, le sentenze sono arrivate ed hanno sgonfiato la narrazione da romanzo noir che aveva infiammato opinione pubblica e politica ( pure troppo): non esiste una rete organizzata per strappare bambini alle famiglie e piazzarli in affido per lucro o ideologia.

Oggi, a processo concluso, i fatti ci restituiscono un quadro ben diverso da quello tratteggiato nel 2019: nessuna rete di bambini rubati, nessuna "setta" dell’allontanamento coatto. Le condanne, dove ci sono state, sono su aspetti marginali e non sempre legati al cuore delle accuse iniziali. Diverse posizioni sono state archiviate, altre assolte, alcune sono finite con pene lievi o patteggiamenti.

Ma allora è tutto risolto? Il sistema funziona?

No.

Il sistema affido in Italia è  un’ancora di salvezza per i minori in difficoltà. In  molti casi lo è. Ma Bibbiano ci invita a riflettere: chi decide? Chi verifica? E, soprattutto, chi ascolta le famiglie affidatarie?

Nel  vortice di polemiche, accuse, teorie del complotto e battaglie politiche, sono proprio le famiglie affidatarie a essere rimaste in  silenzio. Famiglie che hanno accolto bambini in difficoltà e che si sono ritrovate improvvisamente sotto osservazione, come se fossero parte di un ingranaggio oscuro. Quando si parla di affido, troppo spesso si dimentica che non si tratta di un’adozione mascherata ( se non esistesse il sine die), né di un semplice “prestito” educativo. Si tratta di un percorso fatto di relazioni, di equilibrio emotivo, di presenza costante e fiducia. Eppure, le famiglie affidatarie raramente vengono coinvolte nei processi decisionali e nei progetti educativi. Sono lì, sul campo, ma invisibili.

La pecca

La magistratura ha svolto il compito che le compete: ha analizzato le prove, ascoltato i testimoni, valutato le responsabilità dei singoli, e ha emesso sentenze sulla base dei fatti accertati. Ma il processo penale – per sua natura – non è lo strumento adatto per valutare il funzionamento di un intero sistema. Serve a stabilire se, in uno specifico caso e in riferimento a determinate persone, siano stati commessi dei reati. Non è chiamato a giudicare l’efficacia, l’equità o l’organizzazione complessiva del sistema dei servizi sociali, né può farlo. E proprio in questo scarto tra responsabilità individuale e funzionamento collettivo si apre una domanda più ampia, che la giustizia penale da sola non può risolvere: il sistema affido, nel suo insieme, è adeguato a tutelare davvero i diritti dei bambini e delle loro famiglie anche affidatarie?

Ecco dove nasce la crepa.

Ciò che resta fuori dalle sentenze, ma è dentro l’esperienza vissuta è un sistema che alcuni casi appare disomogeneo sul territorio. Le criticità non sono nel "complotto", quanto nella mancanza di omogeneità.

Il sistema dell’affido familiare, oggi come ieri, non è un meccanismo corrotto e predatorio costruito per “rubare bambini”, come certa narrazione politica e mediatica ha voluto far credere. Le sentenze lo hanno chiarito: non esiste una rete organizzata e criminale. Tuttavia, questo non significa che il sistema funzioni perfettamente, né che possiamo archiviare tutto con un “va tutto bene”. Le criticità ci sono.

Cogliere l’occasione per una domanda più grande: il sistema affido funziona?

La risposta onesta è: non sempre e non ovunque.
Il sistema dell’affido familiare in Italia è uno strumento prezioso per garantire al minore il diritto a crescere in un ambiente affettivo adeguato
PROVVISORIAMENTE quando la famiglia d’origine attraversa momenti di grave difficoltà. Ma nei fatti si scontra con almeno tre grandi problemi:

  1. Disomogeneità territoriale: ogni territorio gestisce l’affido in modo diverso. Ci sono distretti d’eccellenza e altri dove mancano persino le figure fondamentali (assistenti sociali, psicologi, tutor).

  2. Formazione e supervisione: famiglie affidatarie spesso non ricevono formazione adeguata e, peggio, vengono lasciate sole nel momento più critico: quello dell’accoglienza. Gli operatori sociali, a loro volta, lavorano in carenza di organico e sotto pressione .

  3. Difficile bilanciamento tra protezione e ascolto: troppo spesso si toglie un bambino alla famiglia d’origine per “tutela”, ma senza accompagnare davvero il percorso di ricostruzione familiare. Oppure si lascia il minore troppo a lungo in situazioni insostenibili “per non spezzare il legame biologico”. In entrambi i casi, è il minore a pagare.

E allora?

Il caso Bibbiano ha quindi smontato, alla prova dei fatti, lo scenario da thriller giudiziario che per anni ha alimentato la narrazione pubblica: non è emersa alcuna rete occulta finalizzata a sottrarre sistematicamente bambini alle famiglie per lucro o ideologia. Quella rappresentazione, urlata da certa politica e amplificata dai media, si è rivelata infondata.

E noi lo diciamo forte e con chiarezza: la gogna mediatica è sempre un errore, soprattutto quando anticipa e sovrasta il lavoro della magistratura, creando mostri prima ancora che siano accertate responsabilità.

Tuttavia, il venir meno del "complotto" non deve farci cadere nell’eccesso opposto: quello di archiviare ogni dubbio o criticità. Al contrario, proprio ora che il clamore si è spento e le sentenze hanno fatto chiarezza sul piano penale, si apre lo spazio per una riflessione più profonda.

Cosa ci insegna davvero il caso Bibbiano? Cosa ci racconta sullo stato reale del sistema affido in Italia, sulle sue vulnerabilità strutturali, sulla fragilità di alcuni interventi e sulla fatica – spesso silenziosa – di famiglie, minori e operatori?


Senz’altro la giustizia penale ha un suo linguaggio e dei suoi limiti: non può e non deve sostituirsi a una riflessione sul funzionamento complessivo del sistema affido. Ma anche che, forse, il problema non era (solo) giudiziario: era – ed è – culturale, organizzativo, sistemico.

Uno dei segnali più forti di questa fragilità arriva proprio dal modo in cui è stato interpretato il principio della multidisciplinarietà nei tribunali per i minorenni. Quel principio che prevede che giudici togati e onorari – ossia esperti come psicologi, neuropsichiatri, pedagogisti – decidano insieme. Non per confondersi nei ruoli, ma per integrare saperi diversi. È questo equilibrio che rischia oggi di saltare, con riforme che potrebbero ridurre drasticamente la voce degli esperti non giuristi proprio in decisioni che riguardano il benessere psicologico ed educativo dei bambini. E lo abbiamo visto: quando questo equilibrio manca, quando si tenta di giudicare un contesto complesso con un solo metro, il risultato è paralisi, sospetto e – ancora una volta – vittime silenziose.

Tra queste vittime dimenticate, ci sono anche loro: le famiglie affidatarie.
Troppo spesso dipinte come comparse passive di un sistema giudiziario e sociale che decide altrove. Famiglie che aprono le porte di casa, accolgono bambini feriti, si fanno carico del dolore, ma che nei percorsi decisionali contano pochissimo. Nessuno chiede loro come stia davvero quel minore, nessuno le coinvolge nei progetti educativi, nessuno le ascolta quando segnalano difficoltà. Anzi, nei momenti più delicati – una crisi, un ricongiungimento difficile, una scelta da fare – diventano invisibili. O peggio: sospettate, come è successo proprio nel clima avvelenato seguito al caso Bibbiano.

 

E allora serve un cambio di passo.
Serve riconoscere che l’affido non è un gesto privato, ma un
atto pubblico di cura. Serve che la politica e i servizi tornino a parlare meno di “emergenze” e più di costruzione di comunità educanti. E serve, infine, un patto complesso ( scritto) e fragile, dove ogni voce conta: quella dei genitori d’origine, quella dei servizi, quella dei giudici, ma anche – finalmente – quella di chi li accoglie.

 

Richiamiamo l’articolo del direttore di Avvenire, Luciano Moia, che ha saputo esprimere con chiarezza ciò che, forse, noi stessi fatichiamo a formulare."

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