
di Emilia Russo
Nel dibattito contemporaneo sulla tutela minorile, due concetti distinti, ultimamente sovrapposti emergono con forza: il diritto all’origine degli adottati e l’obbligo, più o meno esplicito, di mantenere il legame con la famiglia d’origine nei casi di affido familiare sinedie, anche in presenza di personalità familiari gravemente disfunzionali. Questa sovrapposizione ha generato un’ambiguità operativa che merita una lettura critica.
È doveroso precisare, in via preliminare, che esistono situazioni in cui il mantenimento del legame con la famiglia d’origine è non solo auspicabile ma necessario: laddove vi siano genitori in percorso di recupero, legami affettivi autentici e relazioni che, pur nella fragilità, rappresentano per il minore una fonte di continuità, sicurezza e senso di appartenenza.
Tuttavia, questa non può essere la regola. Generalizzare tali casi a ogni contesto familiare – anche a quelli gravemente compromessi – rischia di trasformare un principio di tutela in un automatismo ideologico e dannoso.
Il diritto all’origine riguarda la possibilità, per la persona adottata, di conoscere le proprie radici biologiche, familiari e culturali. Non implica necessariamente la frequentazione o la relazione affettiva , ma piuttosto la ricostruzione della propria storia personale, utile alla definizione dell’identità individuale. È un diritto conoscitivo, non relazionale.
Nell’adozione, questo diritto può essere esercitato in età adulta, in forma protetta, e non viene mai inteso come obbligo di recuperare o mantenere una relazione concreta con la famiglia d’origine. La legge italiana prevede percorsi strutturati per l’accesso alle origini, ma non impone relazioni dirette.
Negli affidi di lunga durata
(spesso sinedie), il mantenimento del legame con i genitori biologici è spesso imposto al minore come parte
del “progetto educativo”, anche in situazioni di manifesta disfunzionalità genitoriale anche di
trascuratezza cronica, abusi.
La motivazione addotta è quasi sempre la stessa: “il bambino ha bisogno di conservare un legame con la
propria origine per non perdere la sua identità”.
Tuttavia, ciò che nasce come principio teorico – evitare l’esilio affettivo e culturale – si traduce, sempre più spesso, in concreto, in visite imposte, contatti forzati e reincontri con figure che hanno generato traumi profondi. Di fatto, si opera una confusione tra diritto all’origine (sapere chi si è e da dove si viene) e obbligo al legame affettivo con chi ha fallito nella cura.
Analisi giuridica
-
Affido e temporaneità: la legge 184/1983 prevede l’affido come misura temporanea. La sua estensione indefinita viola il principio di stabilità necessario alla crescita del minore.
-
Rischio di danno evolutivo: mantenere legami forzati con genitori disfunzionali può integrare una forma di danno relazionale indotto dal sistema di tutela, in contrasto con l’art. 31 della Costituzione che impone la protezione della maternità e dell’infanzia “con misure necessarie”.
-
Diritti contrapposti: si mette in conflitto il diritto del bambino alla sicurezza affettiva (diritto a una famiglia stabile) con il “diritto” – interpretato più come dovere – di restare legato ai propri genitori biologici, anche contro la sua volontà e il suo benessere psicologico.
Sociologicamente, l’insistenza sul legame con la famiglia biologica riflette una visione biologistica e naturalistica della genitorialità: si presume che il legame di sangue abbia un valore intrinseco e insostituibile, anche in assenza di competenze genitoriali.
Tale visione trascura il fatto che:
-
L’identità si costruisce anche per differenziazione, non solo per continuità.
-
Il trauma si riattiva: la frequentazione di figure disfunzionali può riattivare memorie traumatiche, generando regressioni e disturbi comportamentali.
-
Le famiglie affidatarie restano invisibili: pur essendo figure di riferimento reali, vengono spesso marginalizzate nel nome di una “fedeltà simbolica” alla famiglia biologica.
Il risultato è una frammentazione del percorso evolutivo del minore, intrappolato tra un’appartenenza imposta e un’appartenenza vissuta, mai pienamente riconosciuta.
Confondere il diritto all’origine con l’obbligo di mantenere relazioni concrete con la famiglia d’origine disfunzionale
produce effetti distorsivi, il diritto all’origine è un diritto alla conoscenza, non un vincolo affettivo.
L’affido sine die, se non formalizzato in un progetto definitivo, diventa un congelamento dell’infanzia.
Una riforma autentica della tutela minorile dovrebbe distinguere in modo netto:
-
il bisogno di sapere chi si è
-
dal bisogno di crescere con chi è in grado di prendersi cura
Dal punto di vista giuridico, la confusione tra il diritto alle origini e l’obbligo di mantenere relazioni con la famiglia biologica genera una distorsione strutturale. Il diritto alle origini è un diritto autonomo, personale e conoscitivo, volto a tutelare l’identità del soggetto. È un diritto sacrosanto, che consente – in tempi e modi adeguati – di ricostruire la propria storia, comprendere le proprie radici e dare coerenza alla propria biografia. Attribuire a questo diritto una dimensione relazionale obbligatoria – soprattutto in età evolutiva e nei contesti di affido – snatura la sua funzione e ne svuota il significato giuridico. Non si tratta di frequentare per forza, ma di sapere chi si è.
Senza questa chiarezza, il sistema continua a produrre minori giuridicamente sospesi, privi di una collocazione definitiva, lasciati in balia di scelte adulte contraddittorie. L’identità del minore viene frammentata, non tutelata. Il principio, spesso invocato, della “sanità mentale” come giustificazione al mantenimento del legame con la famiglia biologica si traduce, in troppi casi, nella ripetizione del trauma anziché nella sua elaborazione. Il diritto non può essere piegato a una logica affettiva imposta o a un’ideologia relazionale: esso deve garantire protezione, chiarezza, stabilità giuridica e integrità personale.
Scrivi commento