Nelle camere, finalmente, si è fatto silenzio.
Raggiungo il salotto, mi sbraco sul divano e accendo il telefono. Voglio liberare la mente e disintossicarmi dallo stress accumulato durante il giorno. Un video, poi un altro. Vago su YouTube senza una meta precisa. Inaspettatamente mi compare davanti qualcosa.
Sono immagini degli anni '60. È uno studio che vuole mostrare gli effetti della deprivazione affettiva subita nei primi anni di vita nei bambini.
Touché.
L'argomento mi sta molto a cuore e resto incollata con occhi e anima mentre scorrono le sequenze sottotitolate in inglese.
I bambini vengono mostrati senza filtri: di ciascuno si vede il volto, si coglie la sofferenza. Possibile, mi chiedo? Ok, è un video vecchio. Erano altri tempi, non si parlava di legge sulla privacy, però fa effetto entrare senza autorizzazione nei loro sguardi pieni di dolore.
Si susseguono spezzoni in cui una medesima attività viene proposta prima a bambini vissuti in famiglia con i genitori e poi a bambini vissuti in un istituto, privi di una famiglia.
Il confronto è terrificante, impietoso, struggente.
I bimbi che dalla nascita non hanno ricevuto un accudimento individuale, amorevole e sicuro sono distratti, spaventati, apatici, incapaci di giocare, i loro occhi si perdono nel vuoto... sono immagini che frantumano il cuore.
Segue un altro video (perché oggi Youtube mi fa questo?!) che esamina situazioni analoghe, addirittura mostra la regressione gravissima dei bimbi che, dopo aver goduto di una famiglia, a pochi mesi di età vengono lasciati in un istituto.
I miei pensieri si accavallano, si rincorrono, galoppano furiosi.
Da poco tempo, faccio parte di un gruppo di genitori con storie di adozioni
"difficili".
I nostri figli, dopo l'adozione, non si sono integrati nel tessuto familiare: figli che mentono, che rubano, che manipolano, che rifiutano ogni regola e autorità, che non riescono a costruirsi una vita equilibrata, figli che assumono comportamenti gravi di devianza sociale, figli che soffrono... soffrono tremendamente e non riescono ad amare né gli altri né se stessi. Figli che sviluppano patologie psicologiche e dipendenze, figli che si rovinano la vita, la loro vita così giovane, bella e ancora piena di promesse.
E nel confronto tra i loro genitori, provati, a volte distrutti, emerge sempre la stessa storia.
Questi figli, abbandonati in tenera età, hanno vissuto i primi anni della loro vita senza qualcuno che li amasse personalmente: nessuna figura di maternage, niente amore, niente coccole, niente appartenenza. Hanno visto solo qualche adulto sbrigativo che si alternava a ore precise, per pulirli sommariamente e passare una ciotola di pappa. In sostanza: non sei di nessuno, se piangi ti calmi da solo, se hai la febbre ti arrangi, passerà. Se cerchi consolazione, dondola pure avanti e indietro, se ti annoi, rosicchia il ferro del lettino e mastica i pezzi di vernice.
Poi sono cresciuti, la famiglia è arrivata, l'amore è arrivato.
Per molti comincia una rinascita, una rivoluzione in grado di operare miracoli, capace di riparare e guarire. Ma per alcuni, per quelli forse più fragili, ormai è tardi, le ferite che si sono formate sono enormi. Per loro quel buco dei primi anni di vita non ha mai smesso di gemere lacrime e sangue...
Si chiama disturbo di attaccamento, ed è uno tsunami capace di devastare l'esistenza.
Le cure? Difficili, a volte impossibili.
È un male che si cura male.
Deve essere prevenuto. Si può prevenire!
Basta ricordare che per un bambino, specialmente nei primi tre anni di vita, essere amato in una famiglia è importante come respirare. Avere una figura amorevole, affidabile, sempre lei, sempre quella, sempre là per lui, a cui appartenere, è necessario come mangiare, come dormire, è un bisogno primario. Se gliela togli, apparentemente non muore, ma dentro sì, muore.
E allora io mi chiedo:
perché ancora oggi, anche qui, in Italia, non si considera una priorità assoluta il collocamento del neonato in una famiglia affidataria, quando quella biologica non risulti disponibile? Perché ancora oggi vedo collocare i neonati in alcune case famiglia in cui, pur con buona volontà, amore e coccole, il piccolo viene palleggiato tra mille braccia e non può costruire il suo primo, fondamentale attaccamento?
Lo grido con tutto il fiato che ho in corpo: ci vuole una famiglia. Anche se temporanea. Un attaccamento costruito bene, anche se a tempo, è vitale perché permette di crearne altri a seguire.
L'amore di una famiglia è il farmaco salvavita che protegge la salute psichica a breve e a lungo termine.
È ora di non commettere più sulla pelle dei bambini questi errori prevenibili.
Da madre che vive una sofferenza inenarrabile insieme al proprio figlio, mi appello a voi, Giudici e Servizi: se un minore fuori famiglia non può essere adottato, chiamate le famiglie affidatarie che avete formato. So che è più facile rivolgersi ai professionisti ma siate coraggiosi, la vostra scelta può salvare la vita di un bambino... e la vita di chi lo amerà.
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