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Mollo, non ne posso più.

 

Quando abbiamo accolto lei, eravamo spinti dall’incoscienza del sapere più o meno a cosa stavamo andando incontro, con l'idea che però “per noi sarà diverso, noi abbiamo più consapevolezza, più risorse, più energie, più competenze”.

Ma i bambini sono quella cosa che ti capita quando hai bisogno di una lezione di umiltà, quando hai portato avanti le tue criticità personali fino ad arrivare ad uno pseudo equilibrio nell’età adulta, dicendoti (mentendoti) che queste criticità non sarebbero mai state realmente un problema, e che tanto avevi tutto sotto controllo.

Lei è arrivata con il preciso compito di distruggere tutte le mie certezze, e farmi considerare insufficienti le competenze maturate in anni di lavoro con bambini gravemente deprivati e/o abusati.

Mi presento: sono una mamma (adottiva), ma anche una educatrice “dei casi difficili”, e mai avrei pensato che una bambina alta si e no 130 cm potesse in pochissimo tempo distruggere sistematicamente tutte le mie certezze personali e professionali. Perchè diciamoci la verità: quando accogli bambini come lei, puoi anche essere la “Torey Hayden” italiana, ma averli in casa è diverso dal prenderli in carico.

Ricordo perfettamente la prima volta che l’ho vista: ricordo perfettamente lo sguardo diretto che mi ha lanciato, che era uno sguardo di sfida, di chi sapeva benissimo cosa eravamo andati li a fare. Era chiaro il messaggio che voleva lanciare: io MI BASTO, e so molto di più di quello che voi potete anche solo provare ad immaginare.

Quando siamo andati al colloquio conoscitivo per questa adozione nominale, ci è stato detto che la bambina aveva ricevuto una ventina di rifiuti in abbinamento, che era bellissima, sanissima, e che la sua disabilità sensoriale non sarebbe mai stata un limite essendo molto intelligente ed avendo “solo” bisogno di essere seguita e stimolata nella maniera corretta. “Ha SOLO bisogno di una famiglia che la segua, e sarà una passeggiata” è stata la frase che non dimenticherò mai.

Ero consapevole che quella frase nascondeva un mondo, ma mai avrei pensato che il mondo di mia figlia fosse così contemporaneamente complesso, disfunzionale  e compromesso.

Dopo averla conosciuta, un’amica che di adozioni speciali aveva una ricca esperienza, ricordo mi disse “ma a te, un neonato con sindrome di down o un bambino con una semplice disabilità motoria e non cognitiva, ti fa così schifo?” ..li per li ricordo di aver pensato che stesse esagerando, che insomma, io sono educatrice, e ho lavorato con bambini veramente gravi, averla a casa e poterla seguire giorno per giorno soprattutto da mamma (competente) sarà quello che farà la differenza..

La differenza l’ha sicuramente fatta, ma non è bastato.

Perchè lo scopri con il tempo quanto per alcuni bambini il passato ha creato dei danni irreparabili, ed è alla lunga che ti misuri realmente e che i limiti vengono a galla. 

Con il tempo siamo arrivati alla vera diagnosi, che non è solo una, ma è un insieme di problemi emotivi , relazionali e fisici indotti dalle esperienze e dalle persone del suo passato.

Non conto più le volte che ci viene ancora oggi detto “qualunque altra famiglia sarebbe scoppiata da tempo, e avrebbe rinunciato”. Eppure, tra minacce di abbandonarla in autostrada, crisi di pianto (soprattutto mie), un burnout da paura che mi ha distrutto a livello emotivo, siamo ancora qui, a vivere giorno per giorno una situazione che la maggioranza delle coppie che si avvicinano all’accoglienza degli special need non riesce neanche ad immaginare.

Le nostre giornate sono (giorno e notte, perchè dorme poco) un costante vigilare sulle sue azioni, che possono spaziare dall’autolesionismo, alle più svariate ossessioni (ciglia, capelli, unghie..ad oggi ancora non si taglia, e speriamo che regga). Le nostre giornate trascorrono nel continuo dialogo con lei per riportarla alla realtà, smantellando quello che mettendo insieme pezzettini disordinati della realtà lei si è creata come convinzione, riprendendo quegli stessi pezzettini per rimetterli con lei in ordine, così da farle costruire una comprensione di quanto accaduto che sia il più veritiera possibile, e non solo il frutto di caotiche e confusionarie osservazioni combinate a caso.

La NPI sostiene che la sua età cognitiva ed emotiva sia quella di una bimba di 3 anni (e lei ha superato l’adolescenza da un pezzo), ma non spiega alcune sue performance cognitive ed emotive, e la sua spiccata e brillante (ma soprattutto settoriale) intelligenza.

Sul piano relazionale è assolutamente incapace di instaurare una relazione funzionale, sia con i pari, che con gli adulti (di cui non ha mai riconosciuto i ruoli). 

Nella sua storia personale c’è una disabilità che ha influito nella sua crescita cognitiva, una deprivazione che la rende inabile di comprendere il complesso sistema di relazioni e abusi che le fanno proporre modalità di interazione assolutamente sbagliate.

Lei è in continua MODALITA’ DI SOPRAVVIVENZA.

ma….

Chiunque la vede da fuori pensa che io sia pazza, esagerata nel controllo che esercito in alcune situazioni. Lei ha sviluppato dei sistemi di lettura della realtà e di atteggiamenti che ha capito funzionano e sono socialmente accettabili, che la portano ad essere, nel breve periodo e quindi per chi non la vive in modo continuativo, assolutamente funzionale, amorevole, adeguata.

Questo però le costa una fatica enorme, perchè non sono modalità acquisite, ma “recitate”: lei ha imparato cosa la società si aspetta dalle persone, e “fa finta di funzionare”.

Quando mi hanno proposto di inserirla in rieducativa, la risposta è stata un categorico no, per diverse ragioni. 

Prima fra tutte questa sua capacità di interpretare un ruolo sociale, non avrebbe fatto emergere prima di MESI la sua disfunzionalità, e quindi che senso avrebbero avuto alcuni mesi in rieducativa? Per altro in un ambiente, quello istituzionalizzato, in cui lei si muove molto facilmente, e che non le richiede un sistema di relazioni complesso e profondo come quello richiesto da un qualunque ambiente familiare.

Secondo: cosa sarebbe rimasto la sua ridottissima capacità relazionale, costruita in anni di sacrifici, sofferenza, e litigate, se le avessimo passato il messaggio che la soluzione era allontanarla?

Io non lo nascondo: sia da mamma che da professionista ho utilizzato metodi veramente limite. Mi sono assunta delle responsabilità non facili. 

Ho ripreso a fumare i primi due anni che lei è arrivata da noi. Passavo le notti al telefono con mamme che avevano avuto esperienze simili, e colleghi che stimavo.

Ci siamo picchiate reciprocamente, ci siamo insultate.

Non voglio neanche nascondere che più di una volta mi sono detta “mollo, non ne posso più”. 

Quando sento genitori che mi contattano perchè stanno pensando ad accogliere uno special need, e mi dicono “no, disabilità fisica no, ma un bambino vittima di abuso sessuale lo accoglierei senza problemi” penso che le persone non hanno veramente idea di cosa sia il disagio emotivo e psicologico. E men che meno hanno idea di quanto abuso e deprivazione possano devastare un bambino che parte con una “semplice” disabilità.

Ma soprattutto non hanno idea di che strumenti sono necessari per affrontare un bambino che SEMBRA ordinario, ma che non lo è, e probabilmente non arriverà mai più al punto di essere totalmente cognitivamente, fisicamente ed emotivamente autonomo.

Non hanno idea di come trovare professionisti in grado di seguire questi bambini sia esattamente come mettersi alla ricerca dell’arca perduta: una chimera, più che un reale progetto percorribile.

Nel mio caso la fatica enorme è stata e continua ad essere mettermi a seconda del momento nei panni della mamma o nei panni dell’educatore. E che non mi si venga a dire che “sei la mamma, fai solo la mamma, è quello che le serve”, perchè tutta questa esperienza mi ha portata ad essere meno tollerante nei confronti di chi dispensa meravigliose linee di principio, belle frasi da manuale, questioni pedagogiche  ovvie o anche raffinate...NESSUN professionista, neanche il migliore, ha idea di cosa significhi VIVERE con una oramai giovane adulta così compromessa. E no: con l’amore non si risolve nulla. Ci vuole coraggio, una bassa dose di amor proprio, la determinazione a non mollare mai, e un grandissimo senso di responsabilità nel dimostrare ogni giorno, anche a fronte delle peggio cose, che nessuno verrà mai più lasciato indietro., e soprattutto l’umiltà di accettare che ci sono casi creati dal sistema che il sistema non è in grado di supportare, figuriamoci se è in grado di “aggiustarli”.

 


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