La Rubrica raccoglie “posta mai recapitata”, ovvero tutto ciò che singoli genitori affidatari e/o adottivi non hanno avuto occasione di dire al proprio Giudice di riferimento.
Torna #carogiudice ora mi leggi?
Riceviamo e pubblichiamo quello che ci ha scritto un professionista che lavora con i minori e per i minori da tutta una vita.
Ambasciator non porta pena...
La convenzione sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza sancisce il principio del supremo interesse del minore, ovvero dispone che in ogni legge, provvedimento, iniziativa pubblico privata e in ogni situazione problematica, l'interesse del minore deve essere prevalente.
Sin qui tutto bene, proclamare i diritti è molto facile, mentre applicarli è difficilissimo.
Le decisioni di un giudice, di un servizio sociale, di un insegnante, di un adulto non possono ripercuotersi (negativamente) sul benessere del bambino.
Tale diritto dovrebbe essere rispettato anche dallo stato,che "NON PUÒ " prendere decisioni che POSSANO nuocere al bambino.
Può un minore stare 5 anni in comunità, incontrare la famiglia affidataria, procedere con l'avvicinamento, finalmente abbinamento e s a casa.
CASA dove il bimbo può avere i suoi spazi, dove può provare ad essere quello che è , dove ha i suoi libri i suoi colori i suoi compagni e( perché no?) una famiglia dopo 5 anni di comunità (che sia per poco).
E poi, ecco che arriva una nuova decisione, per un vizio di forma si torna in comunità.
Ho letto con i miei occhi un documento dove c'era scritto che un eventuale legame dek minore con la famiglia affidataria avrebbe nuociuto alla ricostruzione del rapporto con i genitori biologici (dopo 5 anni di comunità e mille prove).
Ma state tranquilli, stai tranquillo piccolo tra qualche giorno risolviamo questo "piccolissimo disguido" e torni A CASA.
Quale non è dato saperlo.
L'interesse supremo del minore, solo uno slogan?
Qual è il vero interesse del minore?
Nelle camere, finalmente, si è fatto silenzio.
Raggiungo il salotto, mi sbraco sul divano e accendo il telefono. Voglio liberare la mente e disintossicarmi dallo stress accumulato durante il giorno. Un video, poi un altro. Vago su YouTube senza una meta precisa. Inaspettatamente mi compare davanti qualcosa.
Sono immagini degli anni '60. È uno studio che vuole mostrare gli effetti della deprivazione affettiva subita nei primi anni di vita nei bambini.
Touché.
L'argomento mi sta molto a cuore e resto incollata con occhi e anima mentre scorrono le sequenze sottotitolate in inglese.
I bambini vengono mostrati senza filtri: di ciascuno si vede il volto, si coglie la sofferenza. Possibile, mi chiedo? Ok, è un video vecchio. Erano altri tempi, non si parlava di legge sulla privacy, però fa effetto entrare senza autorizzazione nei loro sguardi pieni di dolore.
Si susseguono spezzoni in cui una medesima attività viene proposta prima a bambini vissuti in famiglia con i genitori e poi a bambini vissuti in un istituto, privi di una famiglia.
Il confronto è terrificante, impietoso, struggente.
I bimbi che dalla nascita non hanno ricevuto un accudimento individuale, amorevole e sicuro sono distratti, spaventati, apatici, incapaci di giocare, i loro occhi si perdono nel vuoto... sono immagini che frantumano il cuore.
Segue un altro video (perché oggi Youtube mi fa questo?!) che esamina situazioni analoghe, addirittura mostra la regressione gravissima dei bimbi che, dopo aver goduto di una famiglia, a pochi mesi di età vengono lasciati in un istituto.
I miei pensieri si accavallano, si rincorrono, galoppano furiosi.
Da poco tempo, faccio parte di un gruppo di genitori con storie di adozioni
"difficili".
I nostri figli, dopo l'adozione, non si sono integrati nel tessuto familiare: figli che mentono, che rubano, che manipolano, che rifiutano ogni regola e autorità, che non riescono a costruirsi una vita equilibrata, figli che assumono comportamenti gravi di devianza sociale, figli che soffrono... soffrono tremendamente e non riescono ad amare né gli altri né se stessi. Figli che sviluppano patologie psicologiche e dipendenze, figli che si rovinano la vita, la loro vita così giovane, bella e ancora piena di promesse.
E nel confronto tra i loro genitori, provati, a volte distrutti, emerge sempre la stessa storia.
Questi figli, abbandonati in tenera età, hanno vissuto i primi anni della loro vita senza qualcuno che li amasse personalmente: nessuna figura di maternage, niente amore, niente coccole, niente appartenenza. Hanno visto solo qualche adulto sbrigativo che si alternava a ore precise, per pulirli sommariamente e passare una ciotola di pappa. In sostanza: non sei di nessuno, se piangi ti calmi da solo, se hai la febbre ti arrangi, passerà. Se cerchi consolazione, dondola pure avanti e indietro, se ti annoi, rosicchia il ferro del lettino e mastica i pezzi di vernice.
Poi sono cresciuti, la famiglia è arrivata, l'amore è arrivato.
Per molti comincia una rinascita, una rivoluzione in grado di operare miracoli, capace di riparare e guarire. Ma per alcuni, per quelli forse più fragili, ormai è tardi, le ferite che si sono formate sono enormi. Per loro quel buco dei primi anni di vita non ha mai smesso di gemere lacrime e sangue...
Si chiama disturbo di attaccamento, ed è uno tsunami capace di devastare l'esistenza.
Le cure? Difficili, a volte impossibili.
È un male che si cura male.
Deve essere prevenuto. Si può prevenire!
Basta ricordare che per un bambino, specialmente nei primi tre anni di vita, essere amato in una famiglia è importante come respirare. Avere una figura amorevole, affidabile, sempre lei, sempre quella, sempre là per lui, a cui appartenere, è necessario come mangiare, come dormire, è un bisogno primario. Se gliela togli, apparentemente non muore, ma dentro sì, muore.
E allora io mi chiedo:
perché ancora oggi, anche qui, in Italia, non si considera una priorità assoluta il collocamento del neonato in una famiglia affidataria, quando quella biologica non risulti disponibile? Perché ancora oggi vedo collocare i neonati in alcune case famiglia in cui, pur con buona volontà, amore e coccole, il piccolo viene palleggiato tra mille braccia e non può costruire il suo primo, fondamentale attaccamento?
Lo grido con tutto il fiato che ho in corpo: ci vuole una famiglia. Anche se temporanea. Un attaccamento costruito bene, anche se a tempo, è vitale perché permette di crearne altri a seguire.
L'amore di una famiglia è il farmaco salvavita che protegge la salute psichica a breve e a lungo termine.
È ora di non commettere più sulla pelle dei bambini questi errori prevenibili.
Da madre che vive una sofferenza inenarrabile insieme al proprio figlio, mi appello a voi, Giudici e Servizi: se un minore fuori famiglia non può essere adottato, chiamate le famiglie affidatarie che avete formato. So che è più facile rivolgersi ai professionisti ma siate coraggiosi, la vostra scelta può salvare la vita di un bambino... e la vita di chi lo amerà.
Grazie Giudice perché mi hai
incontrato, perché hai avuto coraggio, perché mi hai protetto da una madre definita persona socialmente pericolosa ma che tu non hai giudicato. Insieme ci siamo detti che non ce la poteva fare ed
è stato per te (e per me) importante ribadire che io ero un bravo bambino e che quello che era capitato non era colpa mia.
Grazie perché ora ho una famiglia che mi ama, una mamma, un papà, due fratelli più grandi ed un cane. Tu hai permesso che mi adottassero nonostante fosse partito tutto come affido e nonostante la pesante e preoccupante opposizione di mia madre.
Io le risposi che se l'avesse fatto avrei pianto tanto da allagare il mondo.
Mia madre racconta sempre che quello fu il momento in cui diventai suo figlio per sempre.
La mia storia iniziata come affido è sfociata in adozione perché davanti alla dura realtà la Giudice ha voluto darmi la possibilità di appartenere ad una famiglia.
Credo che sia finita bene anche perché la mia mamma adottiva è una gran rompiballe che non si ferma davanti a nulla per il bene dei suoi figli. Di fronte al mio terrore di incontrare la mamma biologica ed al continuo tentennare dei Servizi sociali lei ha chiesto un colloquio con una persona meravigliosa: la Presidente del tribunale per i minorenni.
Il figlio di una MammaMatta
Mi viene in mente la tua stanza Giudice, luminosa con disegni di bimbi appesi alla parete. Erano testimonianze di chi era passato lì. Ed erano davvero tante e colorate.
Sei stato accogliente e sincero. Abbiamo parlato senza avvertire mai la sensazione che tu avessi fretta o che fossi lì solo per fare il tuo lavoro. Abbiamo sentito che anche per te, quello, era un momento speciale vissuto con speranza.
Ci hai spiegato tutto e hai risposto alle domande, anche quelle scomode. Non so quanto sia durato il colloquio. Ma siamo usciti dal Tribunale con un decreto immediato. La documentazione completa e precisa. Nostro figlio è arrivato a casa in sicurezza. L’hai tutelato in ogni ambito. Grazie alla tua puntualità e conoscenza tutto ha funzionato perfettamente.
Sono passati anni e tu, a Natale, mi chiedi la foto del nostro bambino. E vuoi sapere se sta bene. E se siamo felici. Grazie Giudice.
Spero che altri tantissimi bambini possano incontrare professionisti speciali come te. E che tu non sia una sola goccia nell’infinito oceano dei cuccioli che aspettano di andare a casa”.
Una MammaMatta
Caro Giudice, ancora oggi io mi chiedo cosa significhi per te la parola “presto” visto che la nostra piccola, che al momento del nostro incontro aveva appena quattro mesi, ha dovuto trascorrere ulteriori tre mesi in comunità, lontana dall’affetto e dal calore di una vera famiglia.
Non siamo ancora riusciti a capire se quel bambino arriverà mai da noi ma sappiamo che è in comunità e ciò ci fa orrore, sembra che per i bambini le perdite di tempo non siano importanti: mesi,
anni di immobilismo. (Fermo restando che mia figlia è disposta nel futuro a farsi
carico sia del primo bambino se non dovesse rientrare in famiglia che di questo secondo se mai arrivasse).
In comunità vive lontano dagli altri bambini perchè avendo il sondino ritengono pericoloso farlo stare con gli altri ed essendo un bambino scarsamente reattivo nessuno interagisce con
lui.
Quando ho portato a casa con me il primo bimbo una sua amica che viveva anche lei in comunità invece di salutarmi mi ha colpito con un cazzotto mentre un'altra, un pò più grande, mi disse
"portami via con te, ho le scarpe posso venire" queste due manifestazioni di desiderio di famiglia (opposte nella forma ma uguali nel significato) mi
fecero allontanare da li con un magone così grosso da sciupare anche la gioia per aver portato il mio bimbo a casa. Solo dopo che le MammeMatte mi hanno detto che anche loro due hanno trovato una famiglia ho tirato un sospiro di sollievo.
Una MammaMatta